dimenticare l’origine nelle foglie, Massimo Blanco, 2016

Claudie Laks: dimenticare l’origine nelle foglie
Massimo BLANCO, “Sapienza” – Università di Roma

Se ci soffermiamo sulle titolazioni dei dipinti e delle sculture di Claudie Laks emergono dei gruppi tematici molto coerenti e organici. Alcune sue tele fanno riferimento a città e località europee (Grenada, Monticello, il Vesuvio etc.) o asiatiche (in India, per esempio, Dehli e Sircilla), cosicché si deve pensare che il “luogo” per la pittrice sia di preferenza urbano e che si leghi a un’esperienza diretta, al contatto vissuto con scenari e contesti. Su un altro polo, come per reagire alle topografie concentrate delle città, una serie di tele rimanda al tempo. Nei dipinti intitolati ai mesi dell’anno (mesi caldi, di rinascita vegetale, marzo, luglio, agosto), o a “momenti” atmosferici, temporali, notturni e tramonti, il fitto reticolo grafico dell’artista dà prova di allentare la sua compattezza, accettando intervalli più spaziosi tra i nodi che contiene (e non di rado i colori assumono connotazioni floreali, in una specie di primavera impressionista, fatta di focalizzazioni intense su altrettanti focolai di forma che si è portati ad avvertire come dei fiori). Altre opere traggono l’intitolazione dai colori: l’ametista, il carminio, e poi il cobalto chiaro, il nero con l’avorio, ossia, negli ultimi due casi, delle cromie che sviluppano contrasti forti. In taluni casi, dunque, l’artista vuole sperimentare un dosaggio di timbri che va a drammatizzarsi, con due estremi che si separano, ciascuno nella propria specificità, minacciando all’occorrenza di disimpegnarsi dalla compenetrazione, cifra caratteristica dei reticoli dell’artista. Si tratta dunque di un caso limite. Ora, si può pensare che il contrasto rappresenti in Claudie Laks una vera e propria crisi (dal greco krinomai), vale a dire una separazione, una spaccatura, un taglio, in altri termini un evento capace di compromettere la compattezza del sistema cromatico, basato, come risulta evidente a chi osservi le tele di Laks, su equilibri armonici tra i colori. Il contrasto rappresenterebbe pertanto un evento disarmonico, il momento in cui l’omogeneità crolla, svelando, al fondo del suo gioco libero, al di là di una “primavera” di colori colti nel loro libero intreccio, mentre coesistono a minime distanze, una specie di “tettonica” sottostante. Al di qua delle forze disgreganti, si apre dunque una superficie ove vige un perfetto equilibrio di colori, una tessitura musicale (ne rendono testimonianza intitolazioni come Adagio e Ostinato). Ma come il dionisiaco sottostà all’apollineo, così, in Laks, può accadere che il contrasto sprofondi al di sotto dell’armonia, annidandovisi come un coagulo di forze scissorie, le quali operano con la prevedibile subdola lentezza al fine di spodestare l’armonia dominante in superficie, di fronte all’osservatore. Supponendo pertanto che un fondo di paura minacci dall’interno la gioia, accumulando contrasti timbrici che minano le superfici reticolari, capaci insomma di paralizzare l’evidente vivacità e mobilità dei nodi grafici mandandoli alla deriva, si può immaginare che ogni dipinto di Laks contenga due tempi: di fronte a noi un presente “apollineo”, che si caratterizza per la sua attualità, ossia un’armonia legata all’istante, al momento in cui percepiamo la vitalità e l’attività dei nodi grafici (un reticolo che ha richiamato l’attenzione di alcuni critici, che vi hanno giustamente scorto vibrazioni biomorfe o, più semplicemente, dei ritmi musicali). E vogliamo ripeterlo, dietro quel fronte attivo e aperto, strutturato dalla gioia dell’esistere e del percepire, si celano delle forze scissorie proiettate in avanti nel tempo, come a promettere un’evoluzione geologica, la futura scissione di parti compatte che andranno a opporsi ad altre “zolle”, allontanandosi fino a cozzare tra loro, come avviene nella più nota “deriva” dei continenti. Basterà osservare con pazienza il reticolo di armonie sincronizzato al presente in cui è percepito, al tempo in cui chi osserva ne intuisce il movimento armonico: la superficie diventa una griglia in cui, tra infiniti tratti di colore, si scorgono anche curve di colore scuro. Queste ultime sono i sintomi di un’altra dimensione, quella del foglio bianco che accoglie la scrittura. Ora, è questo l’elemento scissorio che pensiamo si annidi dietro le armonie frontali di Laks, le quali, per poter esistere, sembrano tenute a smaltire il nero delle lettere, il colore della scrittura.
Ma perché la scrittura rappresenterebbe in questo artista una forza scissoria? Non perché i tratti neri indichino altrettante fratture nel continuum armonico, ossia i margini di contatto tra zolle diverse. Non è qui il nodo dirimente. Forse tutto dipende dalla nota questione dell’arbitrarietà del segno. Il segno, infatti, non rappresenta l’oggetto, non intrattiene con il designato alcun legame di motivazione ed è sempre possibile, anche nei casi in cui ci si illuda sul nesso mimetico tra oggetto e segno, smontare la reciprocità tra la cosa e il segno. Lo sappiamo da Saussure, il segno è irrazionale e arbitrario. Al contrario, ricorrendo ancora alla linguistica, i segni sono motivati soltanto all’interno del sistema della lingua. Passando alla pittura, ogni armonia di colore – in ogni singola tela di Laks – è di fatto un sistema di segni che si sorreggono a vicenda, motivandosi nel loro reciproco accordo; i colori riescono a mantenersi su un livello di emersione e pertinenza che resta immune alla minaccia dell’arbitrarietà in virtù della chiusura del sistema sul valore “relativo” e reciproco di ogni colore. In altre parole, l’armonia dei colori rappresenta un sistema di valori che può anche non ammettere la presenza del nero e del bianco, ossia: della pagina e dell’inchiostro, del foglio e della parola. Al contrario, quando il bianco e il nero compaiono dentro l’armonia dei colori, si materializza una minaccia. È cioè il linguaggio nella sua assoluta arbitrarietà a mettere in crisi il sistema dei colori, che risulta coerente, come detto, in ragione dell’accordo dei suoi elementi, tanto meglio in armonia quanto più risultano assenti il bianco e il nero.

Proseguendo a classificare i titoli delle opere di Laks, ci si imbatte in nomi femminili tratti dalla mitologia greca: Asthérie, Daphné, Chloé, cui si accoda anche Vénus. Valutiamo il ruolo e il significato di queste figure. Le prime due, Asthérie e Daphné, rappresentano delle ninfe che si trasformano per sfuggire alla seduzione e al contatto. Si fanno intangibili perdendo la loro identità umana; Asteria si muta prima in quaglia e poi diventa un’isola; Dafne, è forse superfluo ricordarlo, si trasforma in lauro. Chloé, invece, è legata al verde e alla freschezza del mattino. Ella può rappresentare l’ultimo stadio della metamorfosi: il corpo di Daphné che si è infine mutato in un reticolo vegetale, ancorandosi alla terra. Ipotizzando che tali figure si leghino tra loro a tracciare un percorso disincarnante, supponendo cioè che ciascuna di esse sia chiamata a scandire una delle fasi di passaggio dall’umano all’animale, e dall’animale al vegetale, si può ritenere che la sequenza di quei ruoli sfoci in un “assoluto” cromatico, quello dell’armonia dei colori. Forse Claudie Laks vuole suggerire una sua personale escatologia. Il corpo scioglie la sua concretezza nel reticolo di colori delle tele, lo stesso che impegna la nostra attenzione sul movimento e la gioia, inchiodandoci al presente. In quel momento, irretiti dall’armonia, i sensi si sincronizzano con l’istante, con il momento in cui si gode della visione. E la coincidenza di sensorialità e presente, di armonia e istante ha l’effetto di staccarci dal corpo, trasformandoci in pure presenze percettive che osservano l’armonia dei grafi. Ora, rispetto a questo stadio di leggerezza disincarnata, di angelicità sensoriale si direbbe, il corpo si rivela come una dimensione regressiva, ossia come l’antipode, il punto di partenza da cui si è partiti per poter godere della sensazione, della libertà dell’aisthesis. Appunto, questo forse il senso che Claudie Laks indica tramite ninfe e dee della mitologia, e che abbiamo inteso come un’evoluzione dal corpo a un piacere senza corpo (dove il corpo è cioè “disinnescato” dal contatto visivo con l’armonia cromatica). Ma si faccia attenzione: quella leggerezza percettiva è anche una forma vegetale, e Chloé la avvalora col suo richiamo al verde. Cosicché, a questo punto, si deve capire che l’estasi senza corpo è il coincidere del nostro percepire con l’armonia vegetale nei dipinti. O meglio, l’armonia reticolare delle opere di Laks non è altro che la sopravvivenza di qualcuno che si è sottratto al contatto per offrirsi completamente agli altri, agli osservatori, per farsi dimenticare nel piacere che provano mentre osservano. Gli osservatori, appunto, catturati nella disincarnazione percettiva, quasi senza volerlo, vengono a contatto con Dafne, colei che si annida nei reticoli armonici. Dafne si è ormai liberata del passato e si è insediata nel presente, nella visione altrui. Ma a cosa serve Venere? Forse Venere è la divinità che tutela il passaggio dal passato al presente, dal corpo alla vegetazione. Il passato, in definitiva, si esaurisce nell’ora e, così facendo, al tempo stesso, fa cadere la necessità della scrittura, di una parola che ricorda. La parola infatti serve anche a raccontare, ad annotare ciò che altrimenti rischia di essere dimenticato. Ma nel presente, quello dell’armonia reticolare, essa perde ogni utilità. Cade perciò via perché non c’è bisogno di annotare qualcosa che sta accadendo, o meglio, non ha senso farlo perché in tal modo ci si dividerebbe tra vivere e ricordare. Si creerebbe appunto una crisi, una frattura, un taglio; l’armonia si spezzerebbe in parti, in “continenti”, in fette di spazio refrattarie, non più capaci di coesistere nell’accordo e nello scambio.

Ma c’è un altro passaggio. Torniamo a Venere. Venere nasce dalla schiuma, è in certo senso la figlia di un reticolo attivo. Prima di nascere, la dea era un corpo imprigionato nel tessuto della schiuma, reticolo che a sua volta, dopo aver custodito chi si è trasformato in vegetazione e spazio, potrebbe riconsegnarlo alla libera esistenza, restituirgli un corpo. Ecco venirci in soccorso altre titolazioni. Anges, Fées, Irlandaise, Oubliée, Appassionata: a chi si riferiscono questi appellativi? Di certo essi ampliano la cronologia delle allusioni di Laks. Al tempo antico della mitologia si affianca il fantastico medievale, una religiosità per certi versi infantile e popolare, cui si aggiunge eventualmente una qualche suggestione verdiana, se cioè si intende Appassionata come un titolo operistico. Ma più incisivo e misterioso risulta il doppio richiamo alla Irlandaise e alla Oubliée. Chi è l’irlandese? È forse la sposa d’Irlanda, Isotta? Di nuovo si allude a una fanciulla che si minaccia di coercizione, che si vuole costringere al contatto, “irretire” appunto, inglobare in un gioco di rapporti a cui vorrebbe sottrarsi. Ancora una volta, per sfuggire al rapimento è necessario trasformarsi in altro, in un reticolo di foglie, in una cortina vegetale, farsi “dimenticare” nella forma inumana che si è costretti ad assumere per sfuggire alla violenza. In definitiva, i reticoli armonici di Laks sono l’ultimo stadio di una metamorfosi, Asthérie, Daphné e Isotta si sono nascoste nella loro metamorfosi in piante e spazio e si fanno proteggere dalle armonie che si schiudono a chi osserva. Chi osserva, pertanto, non conosce l’origine delle armonie che gli si offrono, ne ignora la radice umana, la scelta di trasformarsi, l’evento doloroso che ha consentito alle ninfe di sfuggire al contatto. Soprattutto sfugge l’alto prezzo pagato per ottenere questo risultato: la rinuncia all’identità umana, cancellata per fare spazio all’inumano, al vegetale. Si profila anche un’idea della morte come metamorfosi del corpo in pianta: si muore infatti per sfuggire a una morte in vita, quella che deriverebbe dalla coercizione, quando delle forze perentorie ci coinvolgono in una rete di rapporti che rifiutiamo. La metamorfosi anticipa la morte, trasformando una vittima potenziale in un’armonia di colori vegetali, risvolto istantaneo e vitale di una nuova identità, quella di chi ha voluto farsi dimenticare, accettando di perdere la propria identità.